Integrazione sensoriale ed elaborazione sensoriale
Tutte le informazioni che riceviamo sul mondo provengono dal nostro sistema sensoriale secondo un modello input > elaborazione > output. Il processo di elaborazione sensoriale si riferisce al modo in cui il sistema nervoso riceve, interpreta e risponde agli input sensoriali, risposta determinata da variabili genetiche e ambientali.
Anna Jean Ayres iniziò a sviluppare negli anni ’50 la teoria di integrazione sensoriale, le procedure di valutazione e le strategie di intervento associate a questa formulazione teorica. Negli anni ’70 pubblica il libro “L’integrazione sensoriale e il bambino”. Nel 1960 conia il termine “disfunzione dell’integrazione sensoriale”.
Anna Jean Ayres (1920-1989) terapista occupazionale con un PhD in psicologia dello sviluppo, aveva sempre lavorato presso il Brain Research Institute alla Università di California in Los Angeles. Nel corso delle sue ricerche presso tale istituto coniò il termine di disfunzione dell’integrazione sensoriale per descrivere ciò che considerava alla base dei disturbi di apprendimento di cui si stava occupando e di cui probabilmente lei stessa aveva sofferto da bambina. Tale termine aveva poi creato nel corso degli anni non poche controversie soprattutto nel momento in cui da tale teoria derivò una tecnica terapeutica tuttora presente nel panorama delle terapie per i disturbi dello sviluppo e denominata ‘Terapia dell’Integrazione Sensoriale (Sensory-Integration Therapy – SIT)’. Jean Ayres cominciò a usare il termine di Disfunzione dell’Integrazione Sensoriale osservando pazienti che provavano un particolare dolore quando si lavavano i denti o semplicemente si pettinavano; Jean Ayres cominciò allora a notare come fosse peculiare di tali pazienti avere una inefficiente organizzazione delle informazioni sensoriali a livello cerebrale, e che lavorare a questo livello poteva aiutarli ad affrontare meglio o anche a risolvere i loro problemi.
Cominciò così a sostenere che molti bambini vengono erroneamente considerati come affetti da un disturbo emozionale o comportamentale quando invece il loro problema è riconducibile a un disturbo biologico che porta a una inefficiente organizzazione dell’input sensoriale ricevuto dal sistema nervoso. Ciò può, ad esempio, succedere guardando a una reazione di allontanamento o fuga solamente come a una reazione affettiva di paura e non come a un evitamento dell’essere toccato in un bambino ipersensoriale.
Jean Ayres sostenne quindi con forza quanto sia necessario operare a questo livello ‘a monte’, per affrontare adeguatamente una serie di problemi che vanno visti come effetti ‘a valle’. Cominciò a essere sempre più convinta che affrontando i problemi dei bambini, restando alla loro superficie apparente (emozionale o comportamentale), si possono avere solo risultati parziali, mentre operando sulla processazione sensoriale e sulle sue disfunzioni è possibile affrontare quegli stessi problemi alla radice.
A partire dal 1976 Jean Ayres fondò l’Ayres Clinic dove valutava i bambini, ne individuava con strumenti da lei ideati gli eventuali disturbi sensoriali, e insegnava ai terapisti occupazionali come trattare i disturbi dell’integrazione sensoriale. Anche se gli studi che hanno cercato di dimostrare l’efficacia della SIT non hanno portato sino a ora a risultati soddisfacenti, questa terapia resta largamente diffusa e molto popolare, e non solo negli Stati Uniti.
A poco a poco si sono accumulate le prove relative alla centralità delle anomalie sensoriali in alcuni disturbi nel neurosviluppo, come l’autismo. Celebre è ormai la descrizione di Temple Grandin relativa ad alcune sue caratteristiche: “Da sempre, ho odiato essere abbracciata. Volevo provare la sensazione positiva di essere abbracciata, ma era semplicemente troppo opprimente. Era come un’enorme ondata di stimolazioni che sommergeva tutto e io reagivo come un animale selvatico. L’essere toccata innescava una reazione di fuga. Faceva saltare il mio interruttore. Ero sovraccaricata e dovevo scappare. Anche una pelle eccessivamente sensibile può costituire un grande problema. Lavarmi i capelli e vestirmi erano due cose che da bambina detestavo; a me fare lo shampoo faceva veramente male al cuoio capelluto; non sopportavo cambiare i vestiti che avevo addosso. La maggior parte delle persone si abitua agli indumenti in pochi minuti; tuttora a me occorrono due settimane. Quando ero piccola per me erano un problema anche i rumori forti; spesso erano dolorosi come il trapano di un dentista che tocca un nervo; i rumori leggeri ai quali la maggior parte delle persone riesce a non badare, mi distraevano…”.
Seppure caratteristiche sensoriali insolite siano frequenti nei bambini con disturbi dello sviluppo (si ritiene, ad esempio, che se nella popolazione generale esse riguardano circa il 5-10% dei bambini, nei soggetti con autismo esse sono presenti in almeno il 40% dei casi, e secondo alcuni addirittura nell’80%) e siano state segnalate dallo stesso Kanner nei suoi bambini con autismo già nel 1943, ci sono voluti moltissimi anni perché esse emergessero come un problema clinico centrale dell’autismo (e di altri disturbi). Ciò si deve anche al fatto che la valutazione del funzionamento sensoriale è rimasta a lungo semplicemente descrittiva e aneddotica, compiuta sulla base di descrizioni fornite dai genitori, di analisi retrospettive, di racconti autobiografici.
Un passo avanti in tal senso è stato compiuto grazie allo sviluppo da parte di Winnie Dunn, nel Kansas degli anni ’80, del Sensory Profile, questionario estremamente analitico in grado di fornire il profilo sensoriale di ciascun individuo.
Il Sensory Profile dà forma al sistema cercando di individuare per ciascuna persona il tipo di interazione esistente tra la sua soglia neurologica di attivazione del cervello da parte dei singoli input sensoriali e la sua risposta di adattamento comportamentale (autoregolazione) che può essere passiva (cioè in accordo con la soglia di attivazione) o attiva (cioè in opposizione alla soglia di attivazione). La soglia neurologica (che si riferisce alla quantità di stimoli richiesti da un determinato sistema di neuroni per attivarsi) può andare dall’essere molto elevata (che significa che occorre una notevole quantità di stimoli perché lo stimolo attivi i neuroni) all’essere molto bassa (che significa che occorre una modesta quantità di stimoli perché lo stimolo sensoriale attivi i neuroni). Winnie Dunn (1997), a partire dall’interazione tra la soglia neurologica di percezione dello stimolo individuale e la risposta comportamentale, ha definito quattro diversi stili di risposta con caratteristiche che sono riassunte nel suo modello di elaborazione sensoriale: ipo-reattività, ricerca di sensazioni, iper-reattività, evitamento sensoriale. La soglia neurologica indica la quantità di stimolo necessaria al sistema nervoso per notare o reagire allo stimolo, mentre la strategia di autoregolazione indica il modo in cui si risponde in relazione alla soglia. L’esatta collocazione del bambino in uno di questi 4 tipi è ritenuta ora centrale per capire la natura del problema e per individuare le modalità dell’approccio più efficace a esso.
Altri, più recentemente, si sono dedicati alla ricerca di strumenti per la individuazione degli stili sensoriali dei bambini: tra questi, Grace Baranek nel North Carolina, a sua volta terapista occupazionale e psicologa dello sviluppo, ha condotto studi molto interessanti sulla difesa tattile (problema emergente, e spesso trascurato, di molti bambini con disturbo dello sviluppo) e sta sviluppando un nuovo e più agile strumento di misurazione del disfunzionamento sensoriale.
Articolo a cura del:
Dott. Samuele Russo – Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoterapeuta EMDR, specialista in Psicologia Pediatrica