Quando la psicoterapia non è possibile: bambini, conflitti genitoriali e rischi del setting in contesto giudiziario

Intraprendere un percorso psicoterapeutico con un bambino presuppone alcune condizioni fondamentali: la creazione di un ambiente sufficientemente sicuro (la cosiddetta sicurezza del setting), il consenso informato di entrambi i genitori e, soprattutto, la possibilità di lavorare in un clima di collaborazione genitoriale.

Quando queste condizioni vengono meno, e in particolare quando è in corso un’elevata conflittualità tra i genitori, il setting terapeutico si trova irrimediabilmente compromesso, spesso ancor prima di iniziare qualsiasi tipo di intervento, perfino il primo incontro di consulenza.

Questo accade soprattutto nei casi in cui sono ancora aperte cause legali, procedimenti giudiziari non conclusi, contenziosi sull’affidamento o sull’esercizio della responsabilità genitoriale. In queste situazioni, non solo è impossibile garantire al bambino uno spazio terapeutico neutro e protetto, ma il rischio concreto è che la terapia diventi un terreno di battaglia supplementare nel conflitto già in atto tra i genitori.

Benché il bisogno di sostegno psicologico del bambino sia spesso reale e urgente, non sempre è possibile intervenire in modo clinicamente appropriato. La priorità, in questi casi, deve essere la tutela della relazione terapeutica e del benessere del bambino, evitando di esporre il minore a ulteriori fonti di stress, triangolazioni o manipolazioni (Cigoli & Scabini, 2006).

In questo articolo analizzeremo nel dettaglio perché, in presenza di elevata conflittualità genitoriale e di procedimenti legali in corso, l’intervento psicoterapeutico non sia attuabile, quali rischi comporti per il terapeuta e per il minore, e perché tecniche come l’EMDR risultino assolutamente controindicate in queste fasi.

Psicoterapia e conflitto genitoriale: un’alleanza impossibile

Per iniziare e mantenere una psicoterapia efficace con un bambino, è fondamentale che i genitori, pur nella loro diversità e nelle eventuali difficoltà relazionali, garantiscano almeno una forma di collaborazione minima.

È necessario che entrambi riconoscano il bisogno di aiuto del figlio, che sostengano il percorso terapeutico senza utilizzarlo come strumento di controllo, rivalsa o manipolazione (Minuchin, 1974).

Nel caso in cui sia in corso una causa legale relativa all’affidamento, o quando il clima familiare è avvelenato da accuse reciproche, denunce o perizie, questa alleanza minima diventa impossibile. Qualsiasi tentativo di avviare una psicoterapia si troverebbe a essere immediatamente travolto dalle dinamiche conflittuali degli adulti.

Il terapeuta rischierebbe di essere percepito come alleato di una delle parti, indipendentemente dalla propria volontà. Ogni interpretazione, ogni decisione, ogni singola parola potrebbe essere letta, filtrata e utilizzata a fini strumentali da uno o entrambi i genitori.

Questo non solo renderebbe inefficace il lavoro terapeutico, ma esporrebbe il bambino a un ulteriore carico emotivo insostenibile. Invece di trovare uno spazio di sollievo e di comprensione, il bambino vedrebbe il terapeuta come un altro attore del conflitto, incapace di proteggerlo o di offrire una reale sicurezza emotiva (Boszormenyi-Nagy & Spark, 1973).

Il rischio di strumentalizzazione del terapeuta

Nei contesti di alta conflittualità, il terapeuta, a prescindere dalla sua esperienza e preparazione, rischia, inevitabilmente, di essere manipolato e strumentalizzato dai genitori.

Un genitore potrebbe, ad esempio, cercare di utilizzare la sede geografica della terapia per ottenere vantaggi pratici: costringere l’altro genitore a spostarsi nella propria città, rendere più difficile l’esercizio del diritto di visita, consolidare presso il minore una rappresentazione negativa dell’altro genitore.
Sono dinamiche subdole, che emergono anche attraverso richieste apparentemente “logiche” o “nell’interesse del bambino”, ma che in realtà celano tentativi di ottenere un vantaggio nelle cause giudiziarie in corso.

In casi come quelli osservati nella prassi forense, il tentativo di utilizzare la posizione del terapeuta o la partecipazione del minore alla terapia come “prova” di un’alleanza preferenziale con un genitore è tristemente comune.
Il terapeuta diventa così un elemento della strategia legale, perdendo la propria neutralità e compromettendo irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il bambino (Cigoli & Scabini, 2006).

Il rischio giuridico: quando il terapeuta viene coinvolto nelle cause legali

Oltre al rischio clinico, vi è un rischio giuridico concreto: il terapeuta può essere convocato dall’autorità giudiziaria per testimoniare sull’andamento del percorso terapeutico. In tal caso, verrebbe violato il principio fondamentale della neutralità terapeutica: il bambino si troverebbe improvvisamente tradito, esposto, vittima di una relazione che invece di proteggerlo ha contribuito a esporlo ulteriormente.

Dal punto di vista psicologico, questo tradimento della fiducia ha effetti devastanti. Il bambino può vivere anche solo la potenziale testimonianza del terapeuta come una conferma del fatto che nessun adulto è davvero dalla sua parte, che nessuno è capace di proteggerlo. Il danno relazionale ed emotivo che ne deriva può essere profondo e difficilmente riparabile (Bowlby, 1988).

È quindi fondamentale, per la tutela del bambino e della deontologia professionale, rifiutare di avviare percorsi terapeutici in condizioni che renderebbero inevitabile la compromissione del setting e la violazione del rapporto fiduciario.

EMDR e conflittualità legale: perché è controindicato

Un capitolo a parte merita il discorso sull’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una tecnica estremamente efficace nel trattamento dei traumi ma che richiede condizioni ambientali stabili e sicure.
L’EMDR si basa sulla rielaborazione dei ricordi traumatici e sul loro deposito in una forma più adattiva nella memoria del soggetto (Shapiro, 2001).

In presenza di conflitti genitoriali gravi, di procedimenti giudiziari aperti e di instabilità relazionale, l’utilizzo dell’EMDR è assolutamente controindicato. La stimolazione bilaterale, infatti, può portare a una modifica dei ricordi in modo tale da renderli meno accessibili nella loro forma originaria, alterando la memoria episodica spontanea. Questo processo, normalmente terapeutico, può diventare un grave problema dal punto di vista legale.

Se il bambino dovesse essere chiamato a testimoniare in un procedimento giudiziario futuro, la manipolazione, anche involontaria, del ricordo tramite EMDR potrebbe invalidare la sua testimonianza (Solomon & Shapiro, 2008).

Non solo: in un contesto emotivamente instabile, l’attivazione di materiale traumatico senza una rete sicura di supporto familiare può aumentare i sintomi dissociativi, l’ansia, e la confusione interna del bambino.

Per questo motivo, secondo le linee guida internazionali, l’EMDR non deve essere utilizzato in presenza di gravi conflitti genitoriali, in assenza di un consenso sereno di entrambi i genitori, o quando esistono rischi di strumentalizzazione forense (EMDR Europe Association, 2017).

Le dinamiche di triangolazione e manipolazione nei contesti ad alta conflittualità

Un aspetto ulteriore, spesso sottovalutato ma di fondamentale importanza clinica, riguarda le modalità attraverso cui, in contesti familiari caratterizzati da elevata conflittualità, i genitori tentano di manipolare il terapeuta o di triangolarlo, sottraendolo alla posizione di neutralità che dovrebbe mantenere.

Questi tentativi non avvengono quasi mai in modo aperto o esplicito, ma si manifestano attraverso dinamiche sottili, come l’invio di comunicazioni separate e non condivise, messaggi privati rivolti esclusivamente al terapeuta, richieste apparentemente innocue, ma che escludono l’altro genitore dalla conoscenza e dalla partecipazione al processo.

Un esempio tipico di queste dinamiche si verifica quando un genitore, senza accordarsi effettivamente con l’altro, invia messaggi su canali informali come WhatsApp o SMS, chiedendo modifiche agli appuntamenti, variazioni organizzative, oppure avanzando richieste di anticipare o impostare percorsi terapeutici, sostenendo di parlare “a nome di entrambi”.

Questa modalità, se non immediatamente rilevata e gestita dal terapeuta con fermezza e trasparenza, rischia di creare un clima di ambiguità e di manipolazione relazionale che mina alle fondamenta l’assetto terapeutico. Il terapeuta si trova, di fatto, triangolato: inserito in una dinamica relazionale che replica il conflitto familiare, divenendo inconsapevolmente parte di alleanze disfunzionali (Minuchin, 1974).

La gestione di queste dinamiche richiede grande attenzione e chiarezza. Ogni comunicazione deve essere resa trasparente e condivisa tra entrambi i genitori, preferibilmente attraverso la posta elettronica, inserendo sempre entrambi in copia.

Solo questa modalità consente al terapeuta di preservare la propria posizione di terzietà e di neutralità, evitando di essere cooptato in alleanze strumentali che rischiano di compromettere non solo il lavoro clinico, ma anche il rapporto fiduciario con il bambino.

Nei casi più gravi, come talvolta accade, alla prima risposta del terapeuta che non si piega a queste dinamiche, può seguire una rapida chiusura da parte dei genitori, accompagnata dalla cancellazione degli appuntamenti e dalla rinuncia dichiarata a proseguire la collaborazione.

Questo comportamento riflette la difficoltà — o l’impossibilità — da parte dei genitori di accettare un reale spazio terapeutico neutro, che non possa essere piegato alle logiche di controllo, manipolazione o di conferma delle proprie ragioni (Boszormenyi-Nagy & Spark, 1973).

Anche questi episodi devono essere letti clinicamente non come fallimenti del percorso, ma come indicatori preziosi della gravità e della rigidità del conflitto in corso.

Tentare di forzare l’avvio di una psicoterapia in un clima di manipolazione così estesa non solo è inutile, ma rischia di aumentare il danno sul minore, esponendolo ancora una volta a dinamiche di alleanza, tradimento e instabilità emotiva che nulla hanno a che vedere con il vero lavoro terapeutico (Bowlby, 1988; Cigoli & Scabini, 2006).

La psicoterapia infantile è un intervento potente e delicato che richiede condizioni di base chiare e tutelanti.

In presenza di elevata conflittualità genitoriale, di procedimenti giudiziari aperti e di strumentalizzazioni in atto, avviare un percorso terapeutico non solo è inefficace, ma rischia di danneggiare ulteriormente il bambino, esponendolo a nuove forme di sofferenza e tradimento relazionale.

Il terapeuta, per rispetto della propria deontologia e per autentica tutela del minore, ha il dovere di riconoscere questi contesti come non idonei all’avvio di un intervento psicoterapeutico. Solo quando il conflitto genitoriale sarà stato elaborato, quando vi sarà una collaborazione sufficiente e un quadro giudiziario definito, sarà possibile offrire al bambino quello spazio di cura autentica che merita.

Articolo a cura del: 
Dott. Samuele Russo – Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoterapeuta EMDR, specialista in Psicologia Pediatrica

Fonti bibliografiche:

  • Bowlby, J. (1988). Una base sicura: Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello Cortina Editore.
  • Boszormenyi-Nagy, I., & Spark, G. (1973). Invisible Loyalties: Reciprocity in Intergenerational Family Therapy. Harper & Row.
  • Cigoli, V., & Scabini, E. (2006). La famiglia: Trame, legami, transizioni. Raffaello Cortina Editore.
  • EMDR Europe Association. (2017). Standard Protocols and Procedures Manual.
  • Minuchin, S. (1974). Families and Family Therapy. Harvard University Press.
  • Shapiro, F. (2001). Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR): Basic Principles, Protocols, and Procedures (2nd ed.). Guilford Press.
  • Solomon, R. M., & Shapiro, F. (2008). EMDR and the Adaptive Information Processing Model: Potential Mechanisms of Change. Journal of EMDR Practice and Research, 2(4), 315–325.

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