Quando la richiesta di aiuto diventa una proiezione: lavorare con genitori in stato di allarme

Nel lavoro clinico con i genitori di bambini molto piccoli, soprattutto nel primo anno di vita, capita frequentemente di ricevere richieste di aiuto intrise di una forte componente emotiva: dolore, senso di colpa, angoscia.
Questi vissuti sono comprensibili e legittimi, specialmente quando il percorso della genitorialità è stato segnato da eventi traumatici come ricoveri ospedalieri improvvisi, separazioni forzate, difficoltà nell’alimentazione o nella crescita.

Tuttavia, non tutte le richieste di aiuto sono immediatamente sostenibili sul piano terapeutico.
Alcune, infatti, portano con sé una dinamica più complessa: la proiezione di un bisogno salvifico sul terapeuta, il quale rischia di essere investito di aspettative irrealistiche di riparazione immediata.
Comprendere queste dinamiche, riconoscerle precocemente e gestirle con attenzione è fondamentale per proteggere il bambino, il genitore e l’efficacia stessa dell’intervento.

L’attivazione emotiva della madre: origine e manifestazioni

Quando una madre si presenta in consultazione in uno stato di forte attivazione emotiva, è spesso il segnale che la situazione evolutiva del bambino ha toccato nodi profondi della sua storia personale o del suo vissuto di attaccamento.
L’attivazione si manifesta attraverso:

  • Narrative drammatiche del cambiamento improvviso del bambino (“era diverso prima”, “non è più felice”, “non comunica più”);

  • Sentimenti di colpa intensi, accompagnati dal timore di essere responsabili di un danno irreparabile;

  • Ansia urgente di intervenire, con la richiesta di soluzioni immediate;

  • Difficoltà a tollerare il tempo della crescita e dell’elaborazione, che viene vissuto come una minaccia ulteriore.

L’attivazione emotiva, se non riconosciuta, può portare a dinamiche disfunzionali anche all’interno della relazione terapeutica.

Il transfert salvifico: come riconoscerlo e gestirlo

Il “transfert salvifico” si verifica quando il terapeuta viene inconsapevolmente investito del compito di riparare ciò che il genitore sente di aver danneggiato.
Segnali di un transfert salvifico in atto possono essere:

  • Aspettative di cambiamenti immediati nel comportamento del bambino;

  • Idealizzazione eccessiva del terapeuta (“finalmente qualcuno che ci capisce”, “lei è la nostra ultima speranza”);

  • Dipendenza emotiva dalla figura del terapeuta per ogni decisione riguardante il bambino;

  • Delusione rapida e rabbiosa qualora i cambiamenti sperati non si verifichino subito.

Il rischio principale è che il fallimento inevitabile di queste aspettative sovradimensionate venga proiettato sul terapeuta, compromettendo la relazione terapeutica.

 Strategia clinica: mantenere fin dall’inizio una postura di realismo terapeutico, esplicitando i tempi, i limiti e gli obiettivi del lavoro.

Le dinamiche di colpa e riparazione nella relazione madre-bambino

Il senso di colpa è fisiologico nella genitorialità.
Diventa però patologico quando il genitore:

  • Non riesce a perdonarsi per errori percepiti o eventi traumatici vissuti dal bambino;

  • Trasforma la relazione col bambino in una missione riparativa anziché in un rapporto vivo e presente;

  • Vive ogni segno di difficoltà del bambino come una prova della propria inadeguatezza.

In questi casi, la madre può perdere la capacità di osservare il bambino per ciò che è realmente, vedendolo invece solo come testimone del proprio fallimento.
Questo rende difficile un lavoro terapeutico genuino, che invece richiede la possibilità di osservare, accogliere e sostenere il bambino nella sua evoluzione, senza pregiudizi o sovradeterminazioni.

L’importanza della triangolazione: perché serve il consenso di entrambi i genitori

La richiesta del consenso informato da entrambi i genitori non è una formalità, ma un principio clinico basilare.
Essa permette di:

  • Creare una triangolazione adulta intorno al bambino, riducendo il rischio che il terapeuta venga investito di funzioni genitoriali sostitutive;

  • Verificare la capacità della coppia genitoriale di collaborare, almeno sul piano minimo richiesto dal sostegno psicologico;

  • Sostenere un modello relazionale che non sia fondato sulla diade chiusa madre-bambino, spesso carica di proiezioni, ma su una rete più ampia di alleanze adulte.

In assenza del consenso di entrambi, il rischio di derive terapeutiche è altissimo: la madre resta sola, il bambino resta intrappolato in una dinamica di salvataggio, e il terapeuta si trova in una posizione clinicamente insostenibile.

I rischi di alleanze terapeutiche fragili e come prevenirli

Quando l’alleanza terapeutica si fonda sull’urgenza e sull’idealizzazione, è estremamente fragile.
Tra i principali rischi troviamo:

  • Interruzioni improvvise del percorso;

  • Richieste incongrue (per esempio, aspettarsi che il terapeuta “aggiusti” il bambino senza il coinvolgimento attivo dei genitori);

  • Cicli di idealizzazione/svalutazione che logorano il percorso.

Per prevenirli, è fondamentale:

  • Definire una cornice chiara fin dal primo incontro;

  • Spiegare il ruolo attivo del genitore nel percorso;

  • Rimanere ancorati alla valutazione clinica oggettiva, evitando di colludere con l’urgenza emotiva.

La gestione clinica: costruire una cornice chiara e protettiva

Una buona pratica clinica in questi casi prevede:

  • Un primo ciclo di 5 incontri di consulenza, focalizzati sulla valutazione della relazione e sull’osservazione dello sviluppo del bambino;

  • Conferma esplicita degli obiettivi: non si promette la “riparazione” ma si lavora per sostenere le competenze relazionali del genitore;

  • Piano B esplicitato: se un inverto in presenza o online non funziona, si rivela poco efficace o se si palesano bisogni di altro tipo (es. neuropsichiatria infantile, presa in carico più intensiva), si accompagna con invii qualificati.

Come sostenere realmente il genitore in allarme: dalla riparazione magica al lavoro sulle risorse

Il vero sostegno non consiste nel promettere risultati miracolosi, ma nell’aiutare il genitore a:

  • Leggere i segnali del bambino in modo più realistico;

  • Tollerare le proprie emozioni di colpa, ansia e impotenza senza farsene travolgere;

  • Ricostruire un senso di competenza genitoriale fondato sulla realtà e non sulla paura.

Questo significa aiutare il genitore a rientrare nella relazione qui e ora con il bambino, abbandonando il fantasma del danno irreparabile.

La vera cura è nella relazione, non nella prestazione

Quando un genitore in allarme si rivolge a un terapeuta, ciò che realmente cerca — anche se non lo sa — non è una riparazione magica.
Cerca contenimento, comprensione, competenze relazionali.

Offrire una cornice chiara, stabile e realistica è il primo atto terapeutico fondamentale.
È così che si protegge il bambino, si sostiene il genitore e si costruisce una vera possibilità di crescita per entrambi.

Articolo a cura del: 
Dott. Samuele Russo – Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoterapeuta EMDR, specialista in Psicologia Pediatrica

Fonti bibliografiche:

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  • Bowlby, J. (1988). A Secure Base: Parent-Child Attachment and Healthy Human Development. Basic Books.
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  • Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.
  • Verardo, A. R., & Lauretti, G. (2021). Riparare il trauma infantile: Manuale teorico-clinico d’integrazione tra sistemi motivazionali e EMDR. Giovanni Fioriti Editore.

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